Il lavoro fa male

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Già, il lavoro. Il brivido del lavoro. Me l’ha ricordato un amico che ho incontrato stasera e che mi ha raccontato, con ostentata spavalderia, di non essere pagato da 5 mesi.

Il mio rapporto col lavoro “vero” è sempre stato un po’ altalenante, piazzandosi più o meno sempre nella posizione a 5 stelle del disastro. Un aspetto che affiora qua e là anche nel mio romanzo.

Ho scelto sempre le strade perigliose del lavoro creativo, probabilmente spinta da un sano e micidiale istinto suicida.

Da creativa digitale ho girato come una trottola le più svariate aziende della mia città, guadagnando sempre il mitico contrattino a progetto e qualche piccolo, discreto, calcio in culo. E non riuscendo a disfarmi dei miei temperamenti difficili, come li definiscono alcuni, e ribelli, finiva spesso con una porta rumorosamente chiusa in faccia al capetto di turno.

Il film ha proseguito così finché il mercato del lavoro è definitamente crollato e la porta è stata chiusa in faccia a me. Non c’era più lavoro per una donna over 30, coniugata e pericolosamente ammantata dallo stereotipo della maternità, una parolaccia infamante per il mio settore professionale. Sono stati anni difficili, quando saltellavo da un impiego all’altro per tentare un equilibrio che mi permettesse di contare almeno i soldi per la spesa a fine mese.

Mi hanno proposto di tutto: da un unico giorno di lavoro per recapitare manifesti ai 4 angoli del mondo (“poi ti arrangi tu, con la trasferta e tutto il resto però ti prego, ti prego, dev’esser fatto in un solo giorno…”), al mese di contratto sottopagato al grido “del futuro non v’è certezza”. Sono anche approdata in uno studio di avvocati, un’esperienza assurda che rimpiango di aver accettato per quei 3 mesi scarsi, il tempo giusto per ritrovarmi in una selva di nemici e levare le ancore alla velocità della luce.

L’ultimo era quasi il mio lavoro ideale.

Gli inizi li ricordo con dolcezza, nonostante mi avessero cambiato la tipologia del contratto la sera prima della firma. C’era un po’ tutto ciò che poteva rendermi contenta e soddisfatta: svolgevo effettivamente il mio lavoro creativo (o quasi, non avevo gli strumenti, ma facciamo finta di niente), avevo un ufficio tutto mio in cui nessuno, tranne le telefonate, potesse rompermi le scatole, avevo uno stipendio più che dignitoso…Quasi una favola, insomma. Certo, non mancava anche tanta fatica, ma non intendevo risparmiarmi e mi sforzavo, eroicamente e con tutta me stessa, di fare la brava, non in termini professionali ma di cacciare indietro il mostro del mio caratteraccio da sindacalista. Vabbè, poi è arrivata la fantomatica telefonata della discordia: “non abbiamo più i fondi per pagarti”.

Ok, punto e a capo. Potevo essere meno eroica, mi dicevo, circa un anno fa. In concomitanza sono successe anche altre cosette poco piacevoli da cui forse scaturirà un racconto lungo, prima o poi. Non tutto il male vien per nuocere!

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